Ci stiamo avvicinando — se già non lo abbiamo raggiunto — a un drammatico punto di non ritorno. La scuola italiana perde pezzi, perde credibilità, perde studenti. Quanto potrà ancora durare questa situazione?

 

 

DUE settimane fa mi ha contattato un papà da una città italiana che non specifico, solamente perché non è determinante allo scopo di questo articolo. Potrebbe essere qualunque città italiana — e in effetti negli ultimi due anni ho ricevuto spesso richieste di questo tipo, da luoghi diversi del nostro Paese —, a dimostrazione del fatto che quanto racconto qui costituisce un problema nazionale.

Via mail mi ha chiesto una consulenza in quanto in favore del figlio, che frequenta il secondo anno di scuola secondaria di secondo grado, con DSA certificato, molti insegnanti non hanno mai adeguatamente applicato il PDP. Con la — solita — conseguenza di voti molto bassi, gravi insufficienze, perdita di autostima e di motivazione allo studio da parte del ragazzo. Senza esito, mi ha raccontato, sono stati i numerosi colloqui con i docenti e le persistenti richieste da parte della famiglia di applicare correttamente le misure previste dal documento.

Ho assicurato a questo papà la mia collaborazione, proponendogli un appuntamento online per confrontarci sulla situazione e poi eventualmente — sì, faccio anche questo, l’ho già fatto in passato con buoni risultati — organizzare un colloquio con il consiglio di classe.

Ma non abbiamo fatto in tempo. Qualche giorno fa questo signore mi ha scritto nuovamente, comunicandomi che il figlio ha deciso di lasciare definitivamente la scuola. Evidentemente, la cosa andava avanti da troppo tempo, e questo giovane sedicenne — affranto da un rendimento scarso, stanco per le continue frustrazioni, non più disposto ad accettare voti insufficienti nonostante il suo impegno e malgrado le sue difficoltà certificate, spaventato dallo spauracchio di una bocciatura — ha alzato bandiera bianca.

A nulla sono valsi — mi scrive il padre, rammaricato e rattristato — i tentativi di dissuaderlo da questa decisione, di prospettargli un cambio di scuola con un possibile conseguente miglioramento. Deluso dalla scuola in generale, non ne vuole più sapere di continuare a lottare invano, e molla.

Nei miei ormai dodici anni di attività professionale con ragazzi certificati per DSA o attestati per disabilità, la scelta di questo studente non è che l’ultima di una lunga serie.

Con lui, la scuola ha fallito di nuovo.

Con lui, la scuola ha perso un altro giovane che resterà senza un’istruzione di livello superiore, che quasi certamente accederà al mondo del lavoro anzitempo, senza aver però conseguito un diploma di maturità da poter “spendere” in futuro non dico all’università — ma magari anche sì —, però se non altro in un concorso pubblico o in una selezione di personale per un’azienda.

E, ripeto, questo giovane è solo uno dei tanti.

Badate bene (perché questo è importante): non sto parlando di un ragazzo svogliato, disinteressato, senza arte né parte. Ma di un giovane che aveva scelto un percorso scolastico convinto ed entusiasta, di un giovane con certificazione di disturbi dell’apprendimento, i cui insegnanti — nella mia esperienza, ultimo caso di una ormai enorme serie — non sono stati in grado di comprendere le difficoltà e, semplicemente, di applicare correttamente il PDP che (cavoli, ricordiamocelo!) essi stessi avevano compilato.

Allora, a mia volta rammaricato e rattristato, mi chiedo: dove va la scuola?

Dove va la scuola, se molti insegnanti compilano il PDP dei loro alunni certificati per disturbi dell’apprendimento e poi non lo osservano, negano l’uso degli strumenti compensativi, propongono verifiche inadeguate, non permettono il recupero orale degli scritti insufficienti — o lo permettono, facendo poi la media dei voti… —, non concordano tempi e modi delle verifiche?

Dove va la scuola, se un insegnante di sostegno dopo più di due mesi dall’inizio dell’anno scolastico non aveva ancora avuto il buonsenso di leggere la diagnosi della ragazza di cui si occupa, con la conseguenza di non conoscerne minimamente le caratteristiche e le difficoltà?

Dove va la scuola, se un’altra insegnante di sostegno quotidianamente rimprovera e umilia — dicendogli che «non ce la fa», che «non ricorda cose fatte mille volte» — il ragazzo che dovrebbe invece “sostenere”, ammettendo che «non lo sopporta»?

Dove va la scuola, se gli insegnanti di sostegno vengono reclutati tra ex docenti di educazione motoria o con esperienze professionali al di fuori della scuola, e hanno una scarsa (o nulla) formazione sulle disabilità, sulla didattica inclusiva, sugli strumenti compensativi?

Dove va la scuola, se una docente delle superiori si permette di “fare il verso” a un professionista che è in riunione con lei e altri insegnanti per un serio confronto sulla corretta applicazione del PDP di una sua studentessa?

Dove va la scuola, se a un’alunna con PEI l’insegnante di inglese dice: «Hai fatto una buona interrogazione, ma siccome senza schemi non avresti saputo nulla ti do 4½»?

Dove va la scuola, se i tanti — ripeto: tanti — insegnanti, coordinatori di classe, referenti per l’inclusione e dirigenti davvero bravi, appassionati e competenti, di fronte a situazioni come quelle che ho raccontato allargano le braccia perché «contro certi colleghi non ci possiamo fare nulla»?

Ormai da tempo la scuola italiana perde pezzi, perde credibilità, alla fine perde studenti. Quanto potrà ancora durare questa situazione?

Nota per i lettori. Tutte le situazioni che ho raccontato in questo articolo sono, purtroppo, assolutamente vere, tratte dalla mia quotidiana esperienza con i ragazzi certificati o attestati che seguo in studio, e con gli insegnanti dei quali cerco sempre — spesso con successo, molto spesso inutilmente — di stabilire un rapporto di collaborazione serio ed efficace.
Assolutamente vero è anche l’episodio della docente che ha fatto il verso al professionista che aveva di fronte durante una riunione.
Il professionista ero io.


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